“Craiimusc’ abbacoiere le aulie”.

Domani dobbiamo andare a raccogliere le olive, disse Oronzino quella sera di fine ottobre ai suoi figli, appena rientrato a casa. È abituato a sentire i loro sbuffi e ad essere preso poco in considerazione. È ormai anziano e da un paio di anni i suoi figli assumono operai per la raccolta delle olive destinate alla vendita, sebbene lui non voglia accettarlo.

Oronzino ha anche un ettaro di terra presso la Cupa a cui non fa avvicinare nessuno: solo lui può arare quella terra, tagliare quei rami e raccogliere quei frutti che sono unicamente per la sua famiglia. Ogni mattina da quando era bambino si alza intorno le cinque: oggi dà un bacio sulla fronte a sua moglie ed esce di casa, poco distante da piazza Libertà. Prende gli attrezzi necessari, la fresa, le ‘scupare’ (scope per la raccolta delle olive), le ‘tineddhre’ (tinelle), sale sull’ ‘ape’ e si avvia verso la sua terra.

Ogni anno le stagioni si susseguono incalzanti, e così le lavorazioni della campagna. Dopo qualche minuto, è già arrivato sul posto, il sole invece non si è ancora completamente levato. Oronzino si guarda attorno e ogni volta si meraviglia di come la sua terra sia cambiata ma al tempo stesso resista: quei campi che un tempo erano distese di grano sono ora verdi ma ancora rigogliosi.

Un tempo, Campi Salentina era chiamata la conca d’oro per il caratteristico colore delle spighe di grano che si muovevano all’unisono attraversate dal vento e riproducevano un suono magico, malinconico ma al tempo stesso incantevole.

È quasi mezzogiorno; dopo una mattinata trascorsa al lavoro, il sole è troppo forte per Oronzino, la vista gli si annebbia a causa della stanchezza. Quannu era vagnone (da ragazzo) avrebbe lasciato tutto e sarebbe andato al mare anche solo per rinfrescarsi un po’ con l’acqua salata. Da Campi è facile arrivare a Torre Lapillo, che affaccia sullo Ionio, o a Torre Rinalda che invece è sull’Adriatico: essendo situata esattamente al centro tra i due mari, si impiegano poco più di venti minuti per raggiungere entrambe le località.

Adesso però Oronzino ha voglia di andare a casa a bere una bella birra ghiacciata e a gustare, prima di pranzo, una frisedda, un tarallo di grano duro tipico della cucina salentina, con il pomodoro, l’olio e l’origano profumato.

Dalla sua finestra si vede il castello di Campi; mentre mangia, lo ammira e si chiede se Federico II e la sua corte abbiano avuto il piacere di gustarsi uno spuntino come il suo. Nel pomeriggio Oronzino esce di casa e raggiunge i suoi amici in Piazza Libertà. A volte va prima a farsi una partita a carte al circolo. A volte invece fa un giro lungo, cammina per i vicoli stretti del borgo con le mani dietro la schiena, guarda i balconi fioriti, le case antiche, sta attento a non cadere per le ‘chianche’, i gatti che gli si avvicinano e poi scappano.

Nei giorni di festa c’è moltissima gente e non sembra neanche di riconoscerla per come è imbellettata, la sua Campi. Succede durante la festa della Madonna della Mercede. Ma, quella che a lui piace di più è la festa del Patrono Sant’Oronzo: in quella chiesa ha deciso di sposare la sua Ninetta ormai più di cinquant’anni fa, e ogni volta che ci passa davanti si intravede un sorriso velato sul suo volto: se sia per Ninetta o per lo splendore della Chiesa, lui è troppo orgoglioso per ammetterlo.

Le panchine di Piazza Libertà sono un punto di ritrovo per ogni generazione: ci sono i bambini che giocano sotto l’occhio attento delle madri, i ragazzi di passaggio, le donne che alle sette in punto escono dalla chiesa, e infine ci sono loro, classe ’40, aggiornati su tutto ciò che accade in paese e sguardi attenti a ogni passaggio. È così che passano i pomeriggi in compagnia fino alle otto, quando suonano le campane, è ormai buio e si avverte la stanchezza della sveglia suonata presto.

In un paio di minuti Oronzino è sulla soglia della porta di casa, si sente il profumo delle fainette e foie (fave e cicoria in dialetto) sul fuoco ed ha già l’acquolina in bocca: la cicoria amarognola accompagna la dolcezza delle fave in una forchettata che si scioglie in bocca. Per cena si concede anche un bicchiere di vino rosso che il suo amico Peppe gli regala ogni volta che va a trovarlo. I suoi vigneti producono uno dei vini più buoni in circolazione nella città.

Un paio di volte a settimana vanno a trovarlo i suoi figli. Loro non sono contadini come lui, iddrhi ane studiatu (loro hanno studiato) e hanno trasformato la preziosa eredità secolare della famiglia in una piccola attività imprenditoriale. I maestosi alberi d’ulivo hanno visto susseguirsi generazioni e generazioni, chi ha piantato le loro radici, chi li ha scossi, chi ci si è seduto sopra per leggere all’ombra.

Si conclude così la giornata di Oronzino, nel silenzio della sua casa. Nel centro storico non si sentono macchine e la notte sembra aver quasi avvolto del tutto il borgo. Se si tendono le orecchie probabilmente si possono sentire i rumori dei locali ancora aperti, in cui si intrattengono i giovani a divertirsi e a parlare, ma Oronzino non li sente e cade presto in un sonno ristoratore, pronto a svegliarsi l’indomani e a passare un’altra giornata nelle sue terre.

Tranquillità è la parola chiave per chi ha scelto di vivere, di restare o di passare da Campi Salentina. “Era bello il mio paese con quella ruga di espressione sulla fronte e la pelle un po’ avvizzita dal sudore e dalla fatica dei campi”.

Edoardo Trevisi

Contest #viaggioalcentrodelborgo, 2020