“San Marco … chiudo gli occhi … vorrei riviverti tra cent’anni”

Chiudo gli occhi e la storia di San Marco scorre nella mia mente come tante diapositive, in ognuna delle quali si gusta un sapore dolce, intrigante, nostalgico, ricco e prezioso, come uno scrigno che conserva i suoi gioielli, ancora oggi poco conosciuti e valorizzati.

La prima diapositiva che comincia a scorrere davanti ai miei occhi è quella che mi riporta alle origini di San Marco.

L’abitato di San Marco si affaccia sulla fiumara La Catola, dalla quale prende il nome. E’ dimostrabile che San Marco la Catola esistesse già come castello nella prima metà del XIII secolo, mentre come nucleo abitativo ha origini precedenti, orientativamente intorno all’VIII secolo, quando i duchi longobardi di Benevento possedevano una zona abitata sulla “catola”.

Il nome San Marco è congiunto all’appellativo latino “de Catula”, distinguendosi, sia da San Marco dei Cavoti, sia da San Marco in Lamis, in quanto il suo territorio è attraversato dal torrente la Catola.

Il paese è circondato da un territorio quanto mai variato di panorama e di caratteristiche naturali; limitatamente esteso, è di una struttura morfologica frastagliata, cui, specie nel passato, per accedervi e per coltivarlo era necessaria molta energia fisica sia umana che animale.

La sua posizione è strategica perché si affaccia sulla Valle del Fortore e oggi anche sulla diga di Occhito e permette di abbracciare con lo sguardo buona parte del Molise e un pizzico di Campania.

In un testo scolastico per la Capitanata del 1885 si legge che “San Marco la Catola … conta 4600 abitanti con un territorio di ettari 2305 quasi tutto coltivato a vigneti, il cui poderoso vino va ricercato dai lontani luoghi …”. Vi prospera in particolare l’ulivo come la vite, rinomato un tempo il vino delle vigne di Caramontella tra San Marco e Volturara. Si racconta, ma è documentato, che nel 1858 alla vigilia della visita a Foggia di re Ferdinando II, venne fatto un elenco di quanto occorresse per accogliere adeguatamente il Sovrano e il suo seguito. Ebbene, da San Marco  la Catola arrivarono due barili di ottimo vino di Caramontella”.

La storia economica di San Marco non è però fatta solo di agricoltura. Per molto tempo il paese è stato il punto di riferimento dei paesi limitrofi. Si legge infatti in Daunia Minore di Eugenio Cipriani… “4 oleifici moderni, quattro molini di cui uno a cilindri con pastificio, 9 torchi per vinacce, una macchina trita tutto, 11 trebbie moderne, 12 macchine sgranatrici per granturco; altri impianti di vario genere: un mobilificio moderno, due segherie elettriche, tre officine meccaniche, officine per la lavorazione del ferro battuto, negozi di radio, di liquigas, di articoli elettrici …, negozi vari di ferramenta,  di generi alimentari, di stoffe, di calzature, calzolerie, vendita di mobili …”

Le attività più sviluppate erano quelle molitorie che usavano mulini ad acqua, distribuiti a valle per sfruttare l’acqua a energia di movimento del torrente la Catola. Diffusa era anche la lavorazione dei cesti e delle “fruscelle” di vimini per formaggi. L’ultimo esperto di questa antica arte lo abbiamo conosciuto e lo ricordiamo con affetto perché realizzava dei mini cesti che regalava a tutti (il suo nome era Giovanni Ferrara: mio nonno).

Le diapositive scorrono lentamente come inesorabile scorre il tempo.

Di San Marco ora vedo il castello, fornito di due torri e di mura altissime e robuste, uno dei fortilizi e dei bastioni più importanti della valle. Il castello di San Marco la Catola viene nominato per la prima volta in alcuni documenti del 1241 – 1246, nel periodo cioè in cui il Regno di Napoli era dominato dagli Svevi, sotto l’imperatore Federico II, nipote di Federico “Barbarossa”.

i dice che il castello fosse all’interno provvisto di tutti i servizi necessari, ne facevano parte una cappella dedicata a San Marco Evangelista, un orto con giardino, una serie di casupole destinate ai coloni, oltre alle cantine, ai magazzini ed ai cosiddetti “sottani” dentro e fuori dallo stesso. Quando nel 1821 il Duca Giovanni Pignatelli si decise a vendere, per soli 1000 ducati al signor Nicolangelo Cipriani, quello che rimaneva del vetusto fortilizio, il castello era ormai in rovina.

Le diapositive continuano a scorrere e vedo apparire in sequenza tanti illustri compaesani che si sono distinti per meriti degni di nota.

Il Sacerdote Papiniano Jannantuono, morto nel 1839 ultranovantenne, dignitario della Vendita Carbonara “colli pampìnei” di San Marco la Catola dal 1816 al 1820, eletto al Parlamento borbonico, archivista di Stato a Napoli.

Il Mons. Onofrio (Luigi Maria) Lembo, dei Frati Minori Osservanti morto a Crotone  nel 1883, dopo 23 anni di episcopato, svolto con sacro impegno e fortezza d’animo tra i contrasti e i lavori della cattedrale che fece riedificare.

Giovanni e Manfredi Capone. Giovanni ingegnere capo presso l’ufficio progetti delle Ferrovie negli anni quaranta, il quale alla fine del secondo conflitto si occupò della progettazione  ma soprattutto della ricostruzione di strade e stazioni bombardate, tra cui anche quella di Foggia. Partecipò, inoltre, alla progettazione dello stadio dei “centomila” in Roma. Manfredi divenne Generale dell’esercito (1960) e diresse la sezione controspionaggio presso lo Stato Maggiore in Roma.

Giulio Capone, maestro di musica, emigrato in America fondò una grande orchestra. Giovanni Capone, anch’egli musicista, studiò a Napoli all’accademia di Santa Cecilia, subentrò  nell’orchestra del Teatro San Carlo a seguito della scomparsa della prima cornetta. Il fratello Giulio, divenuto ormai celebre grazie alla sua orchestra, lo invitò a trasferirsi e a lavorare per lui dietro compensi molto più elevati rispetto a quelli contrattuali del San Carlo.

Il sindaco Angelo Iannantuoni, noto per il “suo interessamento appassionato e lodevole” a favore della comunità di San Marco la Catola. Se San Marco la Catola ha  avuto momenti di notorietà lo si deve anche a lui che intuì negli anni ’60 l’importanza del turismo per lo sviluppo economico locale e creò la zona turistica di San Cristoforo (forse uno dei primi parchi protetti). Area meravigliosa, ricca di acqua, dotata dei confort necessari per trascorrere piacevoli giornate.

Fra Bernardino da Morcone (meglio conosciuto come fra Bernardo), maestro e direttore per anni del canto sacro nella chiesa del Convento, a lui si deve il rifacimento della strada convento-calvario, che riuscì a realizzare con sforzi economici esorbitanti.  

Padre Tommaso da Morcone, storico, vissuto a lungo nel nostro convento, autore di numerose pubblicazioni, di prestigio quelle su San Marco, profondo conoscitore della storia e dell’animo dei sammarchesi. 

Le immagini che mi si presentano, però, sono anche triste testimonianza di quel declino che San Marco, come tante altre realtà subappenniniche ha subìto in seguito alla forte e continua emigrazione. 

Di certo sono più i sammarchesi emigrati di quelli rimasti. Se tutti fossero rimasti probabilmente i paesani presenti potrebbero rasentare la cifra record del 1891: 4940 abitanti, picco mai più raggiunto.

E’ stata la necessità di lavoro a far espatriare tanti figli dalla loro Terra, un tempo bastevole nel fornire i mezzi di sostentamento, ma poi, via via, insufficiente per le cresciute esigenze di vita più dignitosa. I pochi rimasti hanno sacrificato il benessere all’affetto per la loro terra di origine e per i legami affettivi. Chi non ricorda “zia Tuccia”, una vecchietta scomparsa da moltissimi anni, la quale non riusciva a stare fuori da San Marco sia pure per qualche mese, senza anelare fino alle lacrime di far presto ritorno a “Sammarcuccio mio”, come soleva esprimersi. Ella si considerava fortunata per essere venuta al mondo mentre davanti casa sua passava la processione di San Liberato, motivo per cui le diedero il nome di Liberatuccia.  

San Marco… piccolo paese mio, tu riempi l’anima di stupore, ed allieti col tuo ampio orizzonte non soltanto la vista ma anche il cuore, che ne rimane affascinato. La pace delle campagne, la serena poesia del bosco, la mitezza del clima, la freschezza delle acque sgorganti dalla montagna, il silenzio mistico del paesaggio, tutto concorre a sollevare la mente e lo spirito e a dar le ali alla fantasia.

A tal proposito Padre Benedetto Nardella (padre spirituale di Padre Pio da Pietrelcina) ti aveva soprannominato “La mistica Betania”.

Ne sono trascorsi di anni, sei rimasto quasi uguale, affascinante, coi tuoi panorami mozzafiato, pronto a farti ammirare da chi ti vive, dai turisti e in particolare da coloro che puntualmente rientrano in occasione della festa patronale. Questo accade ad agosto in onore del Santo Patrono San Liberato Martire.

Quando arrivano i tuoi emigranti assumi una dimensione diversa, ogni casa si riapre, risplendi di nuovi colori, di luci, di sapori, di antichi rumori. Genitori che invogliano i propri figli, anche se per poco, a venire a farti visita. E’ bello vedere famiglie in cui si ritrovano nonni, genitori, figli, amici che scelgono te, terra di tradizioni e folklore, per qualche giorno di vacanza. Ti avvolge un caos anomalo per noi indigeni, gente a qualsiasi ora si incontra, si saluta e seduta davanti alle porte e ai bar chiacchiera in compagnia di un buon bicchier di vino e i tarall du forn, ricordando persone e aneddoti della loro giovinezza.

E’ gioia per il cuore vedere quelle porte rimaste chiuse per tanto tempo riaprirsi alla vita, con persone che riempiono qualsiasi c(i)nand (vicolo)… che parlano si raccontano della propria vita, dei propri figli, del lavoro, delle soddisfazioni e dei dolori di ogni giorno. Non ti accorgi che il tempo passa velocemente, i giorni scorrono nell’allegria e nella spensieratezza.

Se si chiede ai giovani emigrati cosa hanno fatto a San Marco durante la loro permanenza, essi rispondono … “nulla, ma ci siamo riposati, abbiamo goduto di spazi insoliti, surreali rispetto alla solita routine cittadina e ci siamo divertiti”. Tutti, ma proprio tutti, aspettano e vivono un anno intero per rivedere la famosa giostra della Jaletta che ospiti al rione Portammonta.

Puntualmente il 20 Agosto, ai piedi del castello ducale, va in scena l’antica giostra cavalleresca che ti riporta ai fasti medievali. Sette  rioni si sfidano. Sette rioni in fermento si addobbano, si fanno belli per esser pronti a festeggiarti nel giorno più noto.

Purtroppo, ogni cosa bella finisce presto… troppo presto!

Sammarcuccio mio, che stai su una collina…vorrei riviverti tra cent’anni!  Mi piacerebbe conoscerti come quando contavi quasi 5000 abitanti, quando non era necessario andare in città per fare acquisti perché in paese c’era tutto ciò che bastava a soddisfare le proprie necessità. Vorrei vedere le tue campagne coltivate a vigneti, frutteti, da dove ricavare ancora ottimo vino e deliziose confetture biologiche. Vorrei vedere i tuoi abitanti felici e spensierati perché conducono una vita serena e soddisfacente in simbiosi operativa con la natura. Vorrei vederti  pieno di giovani, con il loro entusiasmo, le loro ambizioni, pronti a recuperare il tuo antico splendore attraverso un degno sviluppo turistico e storico-ambientale. Vorrei vederti promuovere e divulgare ogni evento folkloristico della locale civiltà contadina, diffondere la conoscenza di tali tradizioni oltre i confini regionali. Vorrei vedere rinsaldato quel legame dei figli degli emigranti con il proprio paese d’origine, anche per un interscambio culturale ed economico. Vorrei vedere un paese forte ed operoso, capace di far rientrare la sua gente. Dentro di te, San Marco, regna sopito un tesoro di valori civili, religiosi, politici che hanno fatto di te un grande paese. 

Le immagini  si esauriscono ma io continuo a pensarti e volerti come ti ho immaginato, pronto a ripartire per un lungo, lunghissimo viaggio… quello della risalita, un viaggio dal quale io mi auguro tu possa uscire vittorioso per regalare un futuro migliore ai nostri figli.

Dina Cilfone, San Marco La Catola, 15 maggio 2020

Concorso #viaggioalcentrodelborgo 2020